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Narrazione, cos'è

Page history last edited by piccolivale@... 13 years ago

 

Rileggendolo dopo mesi mi sono accorta di numerosi errori e di alcune evidenti ripetizioni. Lo inserisco in wiki così se volete potete modificarlo e utilizzarlo ai fini della ricerca (se credete possa esservi utile).

Narrare, cos'è1

Valeria Piccoli

 

 

È lecito pensare che il pesce sia l'ultimo animale a scoprire l'acqua.

Jerome Bruner

 

 

Che cos'è narrare? Com'è difficile rispondere a questa semplice domanda! La difficoltà non si trova tanto nell'atto del narrare, che invece ci è familiare come l'acqua lo è per il pesce, ma nella sua meravigliosa complessità.

 

Narrare è il mestiere più antico del mondo, da quando ha acquisito il linguaggio, l'uomo tesse e ritesse le trame della sua vita manipolando abilmente la materia grezza dei fenomeni e producendo storie. In questo modo l'uomo attribuisce senso a ciò che lo circonda e rende trasmissibile la sua esperienza. Noi tutti siamo immersi nella narrazione, la narrazione, si può dire, è il nostro elemento naturale, è il mezzo grazie al quale entriamo in contatto con la vita, le diamo una forma, una forma che può essere così raccontata, trasmessa e condivisa. Riflettere sul narrare, in definitiva, significa riflettere sul modo in cui noi elaboriamo le nostre vite e da qui deriva la difficoltà (ma anche il fascino) di questa operazione.

 

La narrazione a scuola

 

A rigor di logica, la scuola dovrebbe essere uno dei luoghi ideali dove fare questo tipo di riflessione: la scuola è il luogo vitale per eccellenza e dunque dovrebbe essere culla in cui prendono vita mille e mille storie. Le pareti della scuola accolgono ciclicamente masse di giovani vite impetuose che popolano rumorosamente stanze altrimenti squallide e fredde. Giovani visi vanno e vengono dalle aule - come un respiro - durante giorni, mesi, anni, scanditi dal suono regolare della campanella. La scuola è teatro di passioni, di scontri, di folgoranti conquiste, di conflitti spesso insoluti, di dolorosi fallimenti e di incredibili prove di coraggio.

Bisogna ammettere però, con un po' di stupore, che all'interno delle aule insegnanti si narra poco di tutto questo e che per lo più invece si narrano storie incredibilmente ripetitive, monotone, in definitiva un po' noiose. Com'è possibile? Per provare a chiarire questo paradosso, proviamo ad entrare e a guardare più da vicino questi luoghi.

 

La narrazione nelle aule degli insegnanti

 

Le aule insegnanti di tutte le scuole del mondo si assomigliano, secondo me. L'aula insegnanti è il luogo in cui si entra solo se si è prof (se non si è prof, si chieda permesso), una volta all'interno si può notare il computer, di fronte al computer si vede un collega intento a calcolare sul sito dell'Inps gli anni che lo separano dalla pensione: quello non manca mai! Altra cosa: la stampante non funziona: “sarà la cartuccia?”, “s'è inceppata la carta!”, “prova a spegnere e riaccendere!”.

Fra le narrazioni che si possono sentire c'è un po' di tutto: romanzo di formazione, biografie (in genere dei figli, ma solo se vanno bene a scuola), autobiografie, ritratti (molto spesso, poco lusinghieri, della suocera); ma la maggior parte delle volte le narrazioni prendono la forma dell'invettiva o della lamentazione. Queste narrazioni vengono ripetute – quasi un mantra - rapidamente fra un'ora e l'altra mentre, attorno alla macchina del caffè – il falò degli insegnanti - si sorbisce in fretta una brodaglia schifosa in bicchierini di plastica. Per lo più, le storie che si narrano sono sempre le stesse: ragazzini arroganti che mancano di rispetto ad insegnanti indignati, insegnanti che però si fanno rispettare. Amen. Si tratta, diciamoci le verità, di narrazioni un po' ingenue, nelle quali si trova il piacere di ridisegnare e di riconoscersi in un ruolo ormai sulla via del declino. Sono narrazioni in genere autoreferenziali, confortanti, dal lieve e un po' sciapo sapore catartico... si tratta di narrazioni che non attendono riscontri: mai obiettarle, mai problematizzarle, mai contraddirle!

 

La solitudine dell'insegnante

 

Ma non voglio con questo tratteggiare un ritratto troppo poco lusinghiero della classe insegnante! Se si vuol capire l'essenza di queste narrazioni, bisogna prima di tutto capire una cosa: il lavoro dell'insegnante è un lavoro che richiede delle competenze molto elevate, delle competenze che molto spesso non sono state fornite all'inizio della carriera e che più spesso invece vengono faticosamente costruite e conquistate sul campo in maniera quasi completamente autonoma (una specie di bricolage della didattica). Se per un verso fa comodo non dover ogni cinque minuti rispondere del proprio lavoro al superiore, come accade per la maggior parte degli altri mestieri, da un altro punto di vista bisogna riconoscere che la solitudine in cui spesso l'insegnante è costretto è un fardello non facile da sostenere. Si tratta di un vero e proprio isolamento in cui è difficile vedere riconosciuta la qualità del proprio lavoro. L'insegnante si trova da solo a dover gestire le difficoltà quotidiane che cambiano in continuazione per ogni istituto, per ogni classe, per ogni allievo. In tutto questo, forse per tema del giudizio, gli insegnati non amano raccontare del proprio lavoro, preferiscono mantenere un profilo basso e restare sul generico se interpellati sulla loro attività. Al massimo amano riferire di qualche episodio che riconfermi la solita dicotomia: bravo insegnate versus cattivo studente.

Insomma: che cosa dica e che cosa faccia la maggior parte della classe insegnante dentro le aule, non è dato saperlo, le uniche narrazioni che abbiamo in proposito, sono quelle – per altro decisamente discutibili – raccolte in faticosissimi appostamenti dietro lo scaffale dei pelati di ipermercati dove i genitori degli allievi si incontrano il sabato mattina. L'insegnante teme queste narrazioni, perché in esse è contenuto in maniera implicita il giudizio sul suo lavoro e lui odia essere giudicato, un po' perché ritiene che lo scettro del giudizio spetti solo all'insegnante, e sentire trasferire ad altri questo potere gli pare attenti direttamente alla sua credibilità (bene indispensabile per lavorare bene in classe); un po' perché, per quanto faccia bene il suo lavoro, il maledetto senso di inadeguatezza che lo perseguita da che ha iniziato la sua carriera gli fa spuntare, suo malgrado, delle non sempre giustificate code di paglia.

L'insegnante è spesso come un funambolo che passeggia sulle sabbie mobili, costantemente in bilico fra la sensazione di essere un bravo professionista e la paura di essere in realtà un terribile incapace e questo accade da un lato per l'estrema complessità del suo lavoro e dall'altro per il fatto di avere poche possibilità di avere un obiettivo riscontro della sua pratica didattica. Insomma: per quanto si sforzi, l'insegnante si troverà sempre un Pierino davanti che si rifiuta di studiare, e che lo metterà per sempre di fronte ai suoi incredibili limiti.

 

Uscire dall'isolamento

 

Qual è allora il senso della narrazione della pratica didattica a questo punto dovrebbe essere chiaro. Scegliendo di narrare il nostro lavoro, noi vogliamo innanzitutto aprire le porte delle nostre aule e uscire da questo isolamento forzato che percepiamo come un grave limite, e che spesso ci impedisce un sano confronto e rende più difficoltosa la nostra crescita professionale.

Le nostra narrazioni, sono in primo luogo, dunque, uno svelarci: mettere a nudo le nostre pratiche e mostrarsi reciprocamente. Narrare, in questo senso, assume il senso di relazionarsi, di costruire scambi, di riconoscere l'altro come interlocutore, di superare la tragedia dell'isolamento e della chiusura, di volere mettersi in discussione, di ricercare il senso delle cose. Ciò presuppone anche l'accettarci e l'ammettere eventualmente di aver sbagliato, assumere che non siamo immuni, noi come i nostri allievi, all'errore. Bisogna avere il coraggio della narrazione, e di narrare non solo le buone pratiche, che ci restituiscono l'immagine che ci piace guardare allo specchio la mattina, ma anche i nostri sbagli. Noi siamo per la narrazione di tutte le pratiche, quelle buone e quelle “cattive”, perché solo con la riflessione l'errore può essere trasformato in un valore.

 

Nel narrare, al contempo compiamo un altro atto, che è un atto sovversivo: narrando noi creiamo una nuova comunità, che distrugge i limiti dello spazio e costruisce una nuova aula insegnanti di tutti e tutte coloro che vogliono narrare o ascoltare storie nuove, le storie normalmente taciute (e pazienza se il collega di fronte al computer non vorrà unirsi). Narrare è in questo senso relazionarsi, costruire scambi, riconoscere l'altro come nostro interlocutore, superare la tragedia della chiusura, mettersi in discussione, ricercare il senso di quello che stiamo facendo quotidianamente a scuola, senza paura di essere giudicati e con la voglia di crescere.

Le nostre narrazioni nascono dunque da un doppio atto creativo: da una parte narrare la pratica didattica significa estrarre dal vissuto dell'esperienza utile a pianificare delle strategie derivate dal campo: passare dalla pratica alla teoria e non, come spesso ci propongono nei vari corsi di formazione, dalla teoria alla pratica. Dall'altra parte narrare vuol dire rifiutare l'isolamento forzato in cui troppo spesso combattiamo le nostre battaglie e vuol dire costruire una nuova comunità, costituita da persone unite dalla curiosità e dalla passione per il proprio lavoro.

Ancora, e in ultima, il nostro narrare accoglie un altro meraviglioso aspetto della narrazione: le nostre narrazioni sono anche delle storie che una volta “intrappolate” nelle forma delle parole, usciranno dal limite temporale e potranno non solo essere condivise ma anche tramandate. Narrare allora assume anche il compito di lasciare una traccia. Noi vogliamo praticare una narrazione che trasformi la vita sfuggente e travolgente dirompente che scalda e che riempie gli edifici scolastici in esperienza, una narrazione che impedisca che il prezioso vissuto scolastico degli insegnanti e dei loro allievi cada nel nulla alla fine delle loro carriere.

 

 

 

In sintesi

Una narrazione che costruisca l'esperienza

Una narrazione che trasferisca esperienza

una narrazione che rielabori e ritrasformi l’esperienza attraverso l’osservazione

una narrazione coraggiosa/fedele

una narrazione che sia il riconoscimento dell’altro e del sè

una narrazione che costruisca una comunità

una narrazione per lasciare traccia

una narrazione che possa essere per sé strumento di ricerca

una narrazione che unisca il rigore scientifico del dire al coinvolgimento emotivo del raccontarsi

chi vuole aggiungere???

 

1Questo contributo raccoglie le riflessioni sviluppate nei forum “Costituzione del team di progetto "narrazione delle pratiche didattiche" e “Sviluppo del documento base del progetto "narrazione delle pratiche didattiche" del social network La Scuola Che Funziona. Ho tentato di rielaborare in maniera personale quanto emerso da queste discussioni, ma mi sono anche avvalsa del contributo dei vari interventi. Grazie a tutti e in particolare a Antonella Dallomo, Simona Martini, Barbara, Carnina Ielpo che troveranno plagiate le loro parole in questo testo.

 

 

Le discussioni nel network su questo progetto sono presenti in questa categoria: http://www.lascuolachefunziona.it/forum/categories/narrazione-delle-pratiche/listForCategory

 

 


  • Sintesi della discussione in versione non definitiva                    narrarecos2.doc  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Qualche approfondimento concettuale

Comments (1)

piccolivale@... said

at 3:57 pm on Nov 24, 2010

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